Quanto fa 65.000 x 3? Un grande concerto dei Police a Torino, il 2 ottobre 2007…
No, forse è un inizio un pelino troppo retorico…
Ricominciamo…
Biglietto acquistato sei mesi fa, giorno libero dalla scuola richiesto appositamente per non dover tornare precipitosamente sui banchi la mattina dopo il concerto… Tutto è pronto.
Arrivo verso le 6 sul prato dello Stadio delle Alpi, dopo una giornata passata tra Montemurlo, l’autostrada e Milano, e riesco non so come a entrare nel ristretto semicerchio dei fans che vedranno il concerto da sotto il palco (diciamo che sono una ventina di metri, proprio davanti alle casse che si trovano a destra).
L’età media è piuttosto alta (almeno 35/40 anni). Del resto, quella della band è di 58 anni. Per fortuna non vedo molti “giovanilisti” (gli ultraquarantenni che vestono e si atteggiano come ventenni, risultando in questo modo patetici).
Mentre l’immenso stadio si riempie, mi tocca subire un gruppo pugliese che Stewart Copeland ha invitato a suonare (l’ha conosciuto in occasione della cosiddetta “Notte della taranta”: non oso immaginare cosa significhi una notte intera ad ascoltare questa musica; è proprio vero che bisogna ringraziare i neri per non averci lasciato in balia di canti popolari e musica leggera italiana) e, peggio ancora, la band del figlio di Sting (belloccio, ma la cosa mi tocca ben poco). «Perché farsi del male e tentare la carriera del padre?» mi chiedo. Suona perfino lo stesso strumento…
Sopravvivo mangiando il classico panino al prosciutto da concerto (“murando a secco”, per evitare inconvenienti) e pensando che un’esperienza mistica di lì a poco si potrebbe verificare se i Police suonassero “Darkness”, l’ultima canzone di “Ghost in the Machine” (una delle mie preferite).
Viene finalmente portata alla ribalta la batteria di Copeland, con l’inconfondibile logo del gruppo. I fans si stringono verso il palco e io riesco a trovare una posizione defilata ma ottima: sono visibilmente soddisfatto. Probabilmente non ero mai stato così vicino al palco, in uno stadio.
Ora: se Andy, Stewart e Gordon mi avessero chiesto di pensare alla scaletta, non avrei potuto crearne una più efficace.
Il motivo per cui i Police sono sempre stati unici è il seguente: con tre strumenti (chitarra, basso, batteria) e una voce, hanno mostrato a tutto il mondo la potenza della musica rock. Un po’ come Davide con la fionda… Un po’ come i Cream, dieci anni prima, ma con meno virtuosismi…
L’inizio del concerto testimonia chiaramente tutto questo.
“Message in a Bottle”: inno perfetto per la solitudine (più o meno adolescenziale) e la necessità di comunicare dell’uomo. I tre entrano in scena e suonano senza video alle spalle e senza effetti speciali. Tre strumenti e una voce, appunto. Delirio totale del pubblico!
“Synchronicity II”: brano sul disco molto elaborato, ma reso dal vivo senza che si sentano vuoti. Qui partono gli effetti visivi, che ricordano l’LP da cui è tratto il pezzo. Quando ero in terza media ho fatto una ricerca sui lemming (topastri scandinavi che ogni tanto si suicidano in massa) per scienze, ispirato da questa canzone.
“Walking on the Moon”: anche in studio era l’essenza del brano perfetto per tre elementi. Dal vivo è superbo, anche se Copeland non riproduce alla lettera il cambio di tempo dopo il secondo ritornello che su disco mi ha sempre fatto impazzire, e la cosa mi disturba un po’.
Poi si passa a qualche canzone da “Zenyatta Mondatta”, l’album più debole del trio, ma la resa live è sicuramente migliore di quella del disco. E poi c’è “Driven to Tears”, in assoluto una delle canzoni migliori del gruppo, in una versione fantastica. Dove si capisce che Sting è fondamentale, ma che la sua carriera solista non vale mezza canzone dei Police, per il semplice motivo che Summers e Copeland sono musicisti incredibili (e umili). Non strafanno con tecnicismi (e potrebbero farlo) ma suonano q.b.
Più in là arrivano le altre hit e soprattutto le canzoni del primo disco. “Truth Hits Everybody”, “[There’s a] Hole in My Life”, “De Do Do Do De Da Da Da”: mi accorgo per la prima volta che i titoli e i temi delle canzoni dei Police sono veramente filosofici!...
Si nota chiaramente che la velocità dei pezzi è ridotta rispetto a quella originale. Evidentemente Copeland non riesce più a tenere quei ritmi. Ma il luogo comune secondo cui una minor furia fisica porta a un maggior apprezzamento dei brani mi sembra in questo caso appropriato.
Nella parte finale del concerto, indimenticabile una “Can’t Stand Losing You” che diventa “Reggatta de blanc” e che ci fa cantare (suoni senza senso) tutti quanti.
Intanto Andy Summers ci fa morir dal ridere imitando più volte la mimica delle popstar più famose, come se non avesse l’età di mio padre.
Novanta minuti senza soste per una quindicina di brani: non male per degli ultra-cinquantenni (anche se ovviamente non c’è storia con Springsteen: 190 minuti – e che minuti! – senza pause a Firenze nel 2003).
Il critico del Corriere della Sera il giorno dopo racconterà di “Spirits in a Material World”, ma deve essersi bevuto qualcosa di molto forte…
Poi i bis: inizio e fine della carriera si toccano. “King of Pain”, “So Lonely”, “Every Breath You Take” (tocca farla…) e infine “Next to You”. Altri venti minuti di tutto rilievo. Comunque “Outlandos d’amour” vince sicuramente il confronto con “Synchronicity”.
Alla fine il solito Summers si sofferma sul palco e ci scatta una fotografia!
A questo punto posso considerare del tutto soddisfatta la mia carriera concertistica (solo perché è praticamente impossibile che gli Smiths si riformino, su questa terra; ma “there has to be an invisible sun”...).