Lou Reed
Lou Reed
I’ piang...
Manifestamente il più grande!
Cammina sul lato selvaggio
I tre quarti del rock che si ascolta dal 1970 a oggi sono influenzati dai Velvet Underground. Se Bob Dylan nel ’65 dà l’avvio al connubio tra poesia e strumenti elettrici, nello stesso periodo il newyorkese Lou Reed ed il gallese John Cale (grazie anche all’apporto dato loro, in termini di visibilità e di soldi, dall’artista pop Andy Warhol), rendono il rock adulto e cosciente di essere pienamente Arte.
È ormai una leggenda l’aneddoto secondo cui i Velvet Underground, nei cinque anni in cui sono attivi, si conquistano poche centinaia di fans, ma che ognuno di essi, dopo averli visti e ascoltati, provvede a fondare una band!
David Bowie, Patti Smith, il punk rock, Joy Division, R.E.M., U2, tutto il grunge (solo per restare ai nomi più noti) sono debitori nei confronti della musica dei Velvet e molti artisti non esisterebbero se Lou Reed non avesse messo a punto quel modo di scrivere canzoni che lo caratterizza poi anche nella sua carriera solista.
Reed sfrutta appieno l’autonomia lasciatagli da Warhol ed unendo le proprie frequentazioni letterarie (da Rimbaud a Poe, da Hubert Selby jr. al Marchese de Sade) alla semplicità melodica e al ritmo del rock’n’roll e alla musica sperimentale e dissonante frequentata da John Cale, realizza canzoni che ottengono un magro consenso negli anni della generazione “pace e amore”, della psichedelia, dei Beatles e poi di Woodstock, ma che si prenderanno numerose rivincite negli anni a seguire.
Lo stretto intreccio tra parole e note (tipico del rock) è evidente fin dai brani iniziali del primo capolavoro, The Velvet Underground & Nico (1967), come Sunday Morning, che descrive al suono di un carillon l’atmosfera sognante ma anche un po’ alienata di una domenica mattina che segue ad una insonne notte di eccessi, o come I’m Waiting for the Man, dove un piano martellante e sempre più frenetico accompagna un uomo bianco fino alla pericolosa Harlem, in fremente attesa di uno spacciatore che lo rifornisca di droga.
Anche negli anni della carriera solistica leggere le parole delle canzoni di Reed risulta un’esperienza interessante ma incompleta. È infatti la musica quieta e piatta a rivelare che la giornata descritta in Perfect Day, brano del ’72 («È proprio un giorno perfetto/ Sono contento di averlo passato con te/ Proprio un giorno perfetto/ Tu continui a tenermi attaccato a te»), è in realtà esattamente l’opposto: un tempo di disperazione assoluta. Sono la voce pietrificata di Reed e l’arrangiamento orchestrale sopra le righe a mostrare che Sad Song non è l’equivalente anglosassone di un brano di Zucchero, bensì l’attestazione del nulla e dell’impotenza a cui è ridotto alla conclusione della vicenda il protagonista del concept album Berlin (1973).
E che dire di Disco Mystic («Mistica da discoteca»), con un coro da oltretomba che ripete ipnoticamente per 4 minuti e mezzo soltanto le parole del titolo (siamo nel 1979, in piena era disco music)? O della descrizione del “tipo medio” resa con timbro di voce e di strumentazione quantomai “petulante” oltreché a parole («Ho un aspetto normale e sono normale dentro/ Sono un innamorato normale ed abito in un posto normale/ Non mi riconosceresti se mi incontrassi faccia a faccia/ Sono solo il tuo tipo normale», da Average Guy, del 1982)?
Le chiavi di lettura di ogni canzone scritta da Lou Reed sono molteplici, ma devono ogni volta tener conto dell’aspetto musicale. Reed nel 1992 si spinge a sostenere che la coda strumentale del suo lavoro di quell’anno (Magic and Loss) è parte essenziale del significato profondo dell’intero disco.
I temi delle canzoni, si sarà notato, non hanno a che fare con speranza, felicità, moralità. Reed giustifica brevemente la sua poetica nella canzone That’s the Story of My Life (1969), citando le parole di un amico fotografo conosciuto nell’ambiente warholiano: «Questa è la storia della mia vita/ È la differenza tra giusto e sbagliato/ Ma Billy ha detto che queste due parole sono entrambe morte»). È descritto dunque un mondo oscuro, selvaggio, vissuto dalla parte comunemente definita “sbagliata”. Senonché la distinzione tra giusto e sbagliato non ha più senso, al giorno d’oggi. Come diranno una decina di anni dopo quegli eredi dei Velvet Underground che sono i punk: «Quando non c’è futuro, come può esserci peccato?» (Sex Pistols, in God Save the Queen, 1977). Reed lo ribadisce in una più recente canzone (Finish Line, del 1996): «Niente è per sempre neppure cinque minuti/ Quando ti stai dirigendo verso la linea del traguardo»). La mancanza di futuro è in Reed sempre un chiaro indice dell’assenza di significato della vita. E se manca il significato, non è possibile distinguere tra bene e male.
Il cantante newyorkese si caratterizza comunque per una incessante ricerca e individuazione di motivi per vivere in aspetti specifici (e dunque mai soddisfacenti) dell’esistenza. Il primo e più impressionante è senza dubbio quello indicato da Heroin (1967): la droga. Ma la droga non semplicemente come mezzo per dimenticare il quotidiano o per “allargare i confini della propria esperienza”, come accade negli stessi anni con gli acidi usati dagli hippies in California; bensì la droga pesante, l’eroina, come strumento metafisico supremo per affermare sé rendendosi pari al niente («Io non so dove sto andando/ Ma voglio provare a raggiungere il Regno se posso/ …/ Ho preso una grande decisione/ Voglio provare ad annullare la mia vita»), fino alla terribile dichiarazione esplicita: «Eroina, sii la mia morte/ Eroina, è mia moglie ed è la mia vita».
Nello stesso disco di esordio dei Velvet, I’ll Be Your Mirror indica uno scenario differente, con la possibilità dell’amore per un’altra persona: «Sarò il tuo specchio, rifletterò ciò che sei/ Nel caso tu non lo sapessi/ Sarò il vento, la pioggia ed il tramonto/ La luce sulla tua porta/ Per mostrarti che sei a casa». Un amore fino quasi al sacrificio di sé per l’altro, ma rischioso, in quanto contare su un altro essere ugualmente precario e volubile non è mai un’operazione di sicura riuscita.
Ecco allora che spunta fuori persino il tentativo di rivolgersi a un amore soprannaturale, testimoniato da Jesus (1969): «Gesù aiutami a trovare il mio posto adeguato/ Aiutami nella mia debolezza/ Perché sono caduto lontano dalla Grazia». Sia Andy Warhol che la batterista dei Velvet Underground sono cattolici. Reed esprime le ragioni della religione, che intuisce tramite queste frequentazioni, ma questa esperienza rimane per lui piatta e quasi sdolcinata (come appare evidente ascoltandone la musica), nel peregrinare della banalità quotidiana.
Molto più solida gli pare la stampella della musica stessa. In Rock’n’Roll (1970) la vicenda si fa strettamente autobiografica, anche se la protagonista è una ragazzina di nome Jenny, che vive una tranquilla e annoiata vita borghese: «Poi un bel mattino mette su una radio di New York/ Non crede a quello che sente/ Cominciò a ballare quella bella musica/ Sai, la sua vita è stata salvata dal Rock’n’Roll». È la storia di molti artisti rock, quasi letteralmente salvati dalla musica; ma col passare degli anni nemmeno quella basta più, e si affaccia la possibilità di tornare in qualche modo alla vita familiare un tempo rifiutata da “Jenny/Lou”.
La moglie Sylvia propone al musicista, alla fine degli anni ’80, di avere dei figli. Reed si getta (in Beginning of a Great Adventure, tratta da New York, probabilmente il miglior disco solista di Reed) in una autoironica riflessione sui possibili vantaggi dell’avere qualcuno cui tramandare le proprie paranoie e che ci possa dare una mano nei decrepiti anni della vecchiaia. Ma, dopo un esilarante elenco di possibili nomi da attribuire alla prole, pare voler dare credito alle parole della moglie: «Potrebbe essere divertente avere un bambino a cui passare qualcosa/ Qualcosa di meglio di rabbia, dolore, collera, sofferenza/ Spero che sia vero quello che mi ha detto mia moglie/ Lei dice: “Lou, è l’inizio di una grande avventura”».
La canzone, che dimostra fra l’altro che le storie di Lou Reed sono più autobiografiche di quanto egli voglia far credere nelle interviste, avrà però un esito negativo: Lou e Sylvia si lasciano pochi anni dopo, anche per la reticenza di Reed su questo punto, come dimostra una canzone del recente disco Ecstasy.
La morte del vecchio compagno di viaggio Andy Warhol, spinge Reed e Cale a collaborare di nuovo nel 1990, nel disco tributo Songs for Drella. Trouble with classicists offre un punto di vista sull’arte che si può attribuire a Warhol ma che non lascia senz’altro indifferente l’altrettanto iconoclasta Reed: «Il problema con un classicista è che lui guarda un albero/ Ed è tutto quello che vede, dipinge un albero/ Il problema con un classicista è che lui guarda il cielo/ Non si chiede perché, dipinge un cielo e basta/ Il problema con un impressionista è che lui guarda un tronco/ E non sa chi è, mentre sta in piedi a fissare questo tronco». Non solo un problema artistico, si potrebbe inferire, ma anche esistenziale: al di là dei precari traguardi raggiunti nell’esistenza, sapere guardare le cose significa sapere chi si è, e sapere fare arte è sapersi chiedere il significato delle cose. Una presa di coscienza importante, per una persona che 20 anni prima dichiarava l’impossibilità di distinguere tra giusto e sbagliato!
Ancor più che nel documentare le domande dell’uomo, come si è visto, Reed è abile nel descrivere l’umanità moderna, senza radici e senza futuro, che cerca di costruire sé passo dopo passo con le proprie forze. Gli esiti di questo tentativo si possono vedere esemplarmente nella canzone del ’92 Harry’s Circumcision.
Harry, un tizio qualunque, si scopre col passare degli anni suo malgrado sempre più simile ai propri genitori. Un giorno, uscendo dalla doccia, si guarda allo specchio e pensa: «Vorrei essere diverso/ Vorrei essere più forte vorrei essere più magro/ Vorrei non avere questo naso/ Queste orecchie in fuori mi ricordano mio padre/ Ed io non voglio affatto ricordarmene/ La delusione finale». Poi intravede l’unica possibilità di cambiamento che può raggiungere con le sue mani: «Harry pensò alla serie di possibilità/ Una nuova faccia una nuova vita nessuna memoria del passato/ E si incise la gola da orecchio a orecchio». Il risultato è che Harry rischia la morte e si risveglia all’ospedale: «Un dottore gli sorrise da qualche parte della stanza/ “Figliolo, ti abbiamo salvato la vita ma non avrai più lo stesso aspetto”/ E quando sentì questo, Harry dovette ridere/ Sebbene gli facesse male, Harry dovette ridere/ La delusione finale». La missione è compiuta, paradossalmente!… Ma la voce di Reed registra impietosamente che è possibile farsi una propria identità in contrapposizione alle proprie origini (al padre) solo al prezzo di una violenza su di sé.
Senza dubbio una delle rappresentazioni più accurate che sia mai stata data dell’uomo moderno!