Rock in breve

Un tentativo neanche troppo ironico di raccontare l’essenziale della storia del rock

 

Storia del rock in 2000 parole!

 

Nell’estate del 1954 nasce negli Stati Uniti d’America uno stile musicale che, mescolandone vari elementi, travalica i confini dei generi di massa diffusi all’epoca (pop, rhythm and blues, country and western) per conquistare rapidamente un grande successo in tutto il paese: il rock’n’roll.

Il primo successo che travalica le classifiche di genere e si impone a livello nazionale è, nel luglio 1954, Sh-Boom dei Chords (quintetto vocale di colore), che viene immediatamente ripreso in modo edulcorato da un complesso bianco canadese, i Crew Cuts. Tale fenomeno (di cui rimane nella memoria collettiva perlomeno la versione levigata di Pat Boone della Tutti Frutti di Little Richard del 1955) si ripeterà spesso in questi primi anni, e dimostra in modo chiaro la labilità del confine tra rock’n’roll e pop commerciale.

Il primo brano a raggiungere i vertici delle classifiche americane e anche britanniche è Rock Around the Clock di Bill Haley and His Comets, complesso bianco che riprende anch’esso spesso canzoni composte da neri ma con un suono molto diverso dal pop e vicino alle nuove canzoni rock’n’roll, con un canto quasi gridato e con chitarre ritmiche e sassofono in grande evidenza. Il pezzo viene in realtà pubblicato nell’aprile 1954 ma, significativamente, non ottiene grande notorietà finché non viene usato, un anno dopo, come colonna sonora di un film sulla difficile condizione delle scuole pubbliche e dei giovani americani: Blackboard Jungle di Richard Brooks (Il seme della violenza è il titolo italiano).

Il 19 luglio 1954 la piccola etichetta discografica Sun Records di Memphis (Tennessee) pubblica il 45 giri That’s All Right (del bluesman Arthur Crudup) registrato due settimane prima da un ventenne sconosciuto di nome Elvis Presley, che già da un anno frequenta senza riuscire a farsi notare dal proprietario, Sam Phillips, gli studi di registrazione della Sun, in cui è possibile incidere dischi a pagamento.

Il successo, nell’area di Memphis, è immediato, e dà inizio alla luminosa carriera di Presley, che alla fine del 1955 passa alla RCA e porta al successo (stavolta nazionale) brani del nuovo genere come Heartbreak Hotel (primo brano inciso per la nuova etichetta, nel gennaio del 1956), la Blue Suede Shoes di Carl Perkins, Hound Dog e Love Me Tender, utilizzando una voce straordinariamente espressiva, versatile e spontanea e una presenza scenica trascinante per i giovani e oltraggiosa per le vecchie generazioni.

Presley non è ovviamente né il primo né l’unico cantante rock’n’roll (che esplode nella seconda metà degli anni ’50 grazie a nomi come quelli di Perkins, Jerry Lee Lewis, Little Richard, Johnny Cash, Buddy Holly e Chuck Berry, uno tra i primi a comporre da solo testo e musica dei propri brani), ma è quello che ha maggiore e più duraturo successo, incarnando perfettamente lo spirito del rock’n’roll, quel quid che più facilmente lo identifica rispetto agli altri stili.

    Sam Phillips è in cerca di «un bianco che canti con lo stesso sound e lo stesso sentimento dei neri», e Presley corrisponde perfettamente alla descrizione, portando al grande pubblico dei giovani bianchi il ritmo, la selvaggia energia e la sensualità della musica nera, mescolati alle tematiche del pop degli anni precedenti e a elementi melodici mutuati dal country.

Ma una caratteristica fondamentale di Presley è il legame inconscio con i grandi bluesmen che avevano inciso le loro canzoni nei decenni precedenti. Pur avendo il blues una storia, dei protagonisti e soprattutto una tecnica diversa, i musicisti rock’n’roll maggiormente consapevoli condividono con esso l’attitudine dei confronti dell’arte e della realtà.

La musica è infatti per loro espressione diretta della realtà che vivono, e quindi non pongono una distinzione intellettuale tra artista e ascoltatore.

Inoltre il sentimento del blues è riassumibile come la coscienza drammatica della «impossibilità di conciliare gli avvenimenti del male con la bellezza del mondo» (Marcus, Mystery Train, p. 55). Esso ha molto a che fare con l’origine puritana degli Stati Uniti:


«È ovvio che l’uomo dimora in uno splendido universo, in una magnifica distesa di terra e cielo, che è evidentemente costruita su una struttura maestosa, conserva un grande disegno, sebbene l’uomo stesso non riesca ad afferrarlo. Eppure per lui non è un mondo piacevole o soddisfacente […] È fin troppo chiaro che l’uomo non è a casa sua in questo universo, e che non è buono abbastanza per meritarsene uno migliore» (Marcus, Mystery Train, p. 47, da Perry Miller, The New England Mind: The Seventeenth Century).


In realtà l’esplosione del rock’n’roll si configura come prometeico tentativo di sconfitta del sentimento del blues (e per questo si confonde facilmente con una forma di ribellione giovanile rispetto agli adulti), di costruzione della “terra promessa” (come canta nel 1964 Chuck Berry), del “mondo perfetto” già in questa vita, o almeno in alcune nicchie, in alcuni settori di essa. Il tentativo non è solo quello di divertirsi, quanto di dare risposta all’essenziale solitudine dell’essere umano.

Comunque, negata o confermata, questa percezione drammatica della realtà ritorna periodicamente nella storia del rock. Tra gli ispiratori più fecondi come coscienza, come tecnica e come abilità nello scrivere brani, è sicuramente il bluesman del Mississippi Robert Johnson, che aveva registrato un pugno di canzoni molto influenti tra 1936 e 1937, poco prima di morire tragicamente a neanche 30 anni.

All’inizio degli anni ’60 per vari motivi i grandi cantanti rock’n’roll passano in secondo piano (mentre un duro colpo è dato dallo “scandalo Payola”, per cui si scopre che le case discografiche pagano le radio per passare i loro brani). Per reazione, oltre a tornare in auge il pop commerciale negli Stati Uniti avviene il folk revival (tentativo di reinterpretare e diffondere le canzoni popolari tradizionali, talvolta con fini di protesta politica e sociale), mentre la Gran Bretagna dà inizio alla cosiddetta British Invasion, cioè al recupero del blues americano con strumenti elettrici e batteria da parte di complessi che in breve paradossalmente “invadono” le classifiche degli Stati Uniti.

Nel 1965 Bob Dylan (dopo aver pubblicato dischi composti da propri pezzi ispirati dall’ambiente del folk revival) unisce elementi blues, folk e rock’n’roll per dare vita al rock. Nelle sue parole, vent’anni dopo:


«La questione principale a proposito del rock’n’roll, per me, era che comunque non mi bastava. Tutti Frutti e Blue Suede Shoes avevano frasi di grande effetto e presa, nonché un ritmo trascinante e un’energia travolgente, ma non erano cose serie, e non riflettevano affatto la realtà della vita. Quando mi sono dedicato alla musica folk, ero consapevole che si trattava di una cosa più seria. I brani sono colmi di disperazione, tristezza, trionfo, fede nel sovrannaturale, sentimenti più profondi… C’era più vita reale in una sola frase di quanta ce ne fosse in tutti i temi del rock’n’roll. Ne avevo bisogno. La vita è una faccenda complessa, e il rock’n’roll proprio non la rifletteva. Era soltanto come assumere un’espressione felice e dire “Dai Sally, dai”, non c’era nulla che assomigliasse neanche di sfuggita a Sixteen Snow White Horses oppure a See That My Grave Is Kept Clean. Se qualcosa d’importante sono riuscito a fare, è stato proprio fare incontrare i generi. Quando io ho cominciato, in ambito musicale non esisteva niente di serio, nemmeno i Beatles. A quel tempo, loro cantavano Love Me Do, e quanto a Marvin Gaye… Lui non ha fatto What’s Going On fino agli anni Settanta» (Booklet del cofanetto Biograph).


Simbolico momento di passaggio è il fischiatissimo concerto “elettrico” di Dylan e alcuni fidi musicisti come Mike Bloomfield e Al Kooper al Festival Folk di Newport, il 25 luglio 1965.

La strumentazione del rock’n’roll (ma con l’inserimento in pianta stabile di piano e organo, oltre che dell’armonica), il pieno recupero del feeling blues, la coscienza sociale e poetica del folk, la composizione in proprio di canzoni in cui testo e musica hanno uguale importanza e medesimo scopo, la realizzazione di 33 giri unitariamente concepiti (non solo come collezione di singoli): queste le caratteristiche più evidenti in Dylan e nei successivi artisti rock.

Pur mantenendone alcuni elementi stilistici, non si tratta più un’arte di estrazione folk, immediata, ma è pienamente cosciente dei propri mezzi (anche di quelli di riproduzione e diffusione: dischi, media, concerti) e scopi: una rappresentazione critica della realtà, proprio come la letteratura e le arti visive lo sono.

Il rock inizia a distinguersi in sottogeneri e a diffondersi con facilità in tutto il mondo occidentale, prima di tutto anglosassone. Rock blues, rock psichedelico, hard rock (in questi generi l’elemento blues dà un contributo essenziale), progressive rock, glam rock, art rock e country rock sono le categorie più usate tra metà degli anni ’60 e metà dei ’70, ma non mancano “battitori liberi”, songwriters (Van Morrison, Neil Young, Lou Reed, Tom Waits, Bruce Springsteen) che interpretano le proprie canzoni senza curarsi troppo dei generi e tornando allo spirito che si era impossessato di molte delle canzoni di Presley prima e di Dylan dopo. C’è poi il genio dissacratore di Frank Zappa, che si rifiuta di essere inserito in alcuna delle suddette denominazioni e passa dalla parodia del pop (le sue famose “stupid songs”) alla musica per orchestra con estrema facilità.

Intorno al 1975, prima negli Stati Uniti ma poi con maggiore incisività in Inghilterra, si afferma una serie di artisti che mette in discussione la secondo loro eccessiva tecnicizzazione e pretenziosità raggiunta dai colleghi, e al grido di «non importa saper suonare per potersi esprimere col rock», inventa la rivoluzione del punk: imperizia strumentale, look e comportamenti disturbanti, ideologia del “no future” («Quando non c’è futuro come può esserci peccato?» cantano i Sex Pistols); in breve, affermazione di sé contro tutto e contro tutti.

Dal punk sono in pochi ad “uscire vivi”, in senso letterale e soprattutto artistico. Le case discografiche alla fine degli anni ’70 hanno ormai trasformato la musica in fenomeno commerciale molto remunerativo. La maggior parte dei gruppi e degli artisti virano dunque verso il pop, inteso come arte che intende riprodurre una apparenza della realtà, senza neanche più le intenzioni colte della Pop Art figurativa. David Bowie, nel 1983, lo dirà esplicitamente: Let’s Dance!

L’ultimo concerto dei Sex Pistols (a San Francisco, il 14 gennaio 1978) o meglio ancora l’uscita di London Calling dei Clash (che nel dicembre del 1979, sopravvissuti ed evolutisi a partire dal punk, chiudono un’epoca musicale con una specie di mosaico dei vari generi rock), sono i momenti cruciali che segnano il cambiamento.

A partire dagli anni ’80 la nascita dei video musicali e di MTV segnano una pietra miliare nel campo dei mezzi di comunicazione musicale ma soprattutto come indicatori dello scopo della musica, che diventa puro “divertimento”.

Nel 1982 Brian Eno esprime perfettamente il cambiamento avvenuto:


«Io ho voluto trovare una musica alla quale si possa tornare, alla quale si possano riconoscere delle angolazioni familiari ma che, nello stesso tempo, mi permetta di scoprirne altre ancora, sempre meno familiari, sempre più estranee. È proprio l’opposto di quello che io intendo nella musica pop moderna. Tutto è limpido e cristallino e tutto sta là, al primo ascolto… Essa non racchiude questa magia di esplorazione. Penso soprattutto ai gruppi inglesi che usano il sintetizzatore in questo momento e che sono così popolari. Questa musica non ha alcuna profondità… Si può letteralmente vedere attraverso questa musica: è vuota!».


In pochi si oppongono a questo trend: i giovani complessi (spesso nati in ambienti musicali “indipendenti”, alternativi a quello più commerciale determinato dalle grandi case discografiche “major”) che guardano alle grandi realizzazioni del passato musicale rock; i vecchi musicisti (Dylan, Reed, Springsteen e Young, con l’australiano Nick Cave come unico erede della generazione successiva) che si volgono sempre più anch’essi al passato, in particolare al blues, al rock’n’roll e al folk, con l’eccezione forse del corrosivo “frammentatore di suoni” Tom Waits.


«Agli aspiranti autori di canzoni e cantanti io dico: disinteressatevi della roba di oggi, dimenticatevela, leggete John Keats, Melville, ascoltate Robert Johnson e Woody Guthrie» (Bob Dylan, 1985).


«Il problema di un impressionista è che lui guarda un tronco

E non sa chi è, mentre sta in piedi a fissare questo tronco»

(Lou Reed & John Cale, Trouble with Classicists, 1990).