The Smiths

Morrissey, Johnny Marr, Andy Rourke, Mike Joyce.

Un gruppo che non è solo un gruppo ma una filosofia di vita. Forse non scelta...

 

Fra quanto arriva “adesso”?

 

La Gran Bretagna tra il 1983 e il 1987 non è soltanto la patria musicale di Duran Duran e Spandau Ballet, di Wham! e Frankie Goes to Hollywood. In quegli anni una piccola casa discografica indipendente, legata a un alternativo negozio di dischi a Londra (entrambi sono chiamati “Rough Trade”), pubblica quattro LP, innumerevoli 45 giri (cosa piuttosto atipica) e svariate compilation di un gruppo formato da quattro ragazzi di origine irlandese nati a Manchester, il cui nome prende spunto dal cognome più diffuso in Inghilterra: The Smiths.

Gli LP hanno titoli quali La carne è un assassinio, La regina è morta, Strangeways [carcere di Manchester] arriviamo; le copertine raffigurano perlopiù istantanee monocromatiche e vagamente sfumate di attori tratte da oscuri film d’altri tempi; i singoli estratti dai 33 giri sono denominati in modo improbabile come per esempio Lingualunga colpisce ancora, Fidanzata in coma, Taccheggiatori di tutto il mondo unitevi; inoltre, in piena “epoca di espansione” per i sintetizzatori, gli strumenti usati sono quasi sempre chitarra elettrica, basso e batteria.

Nonostante tutto ciò, mentre in seguito i Duran Duran faticheranno a trovare qualcuno disposto a pubblicare un loro disco, gli Smiths verranno dalla metà degli anni ’80 in poi spesso indicati come i capofila del rock britannico.

Il tocco chitarristico di Johnny Marr è uno tra i pochi riconoscibile tra mille (anche nelle successive avventure discografiche con Pretenders, The The, Electronic, Neil Finn...); i suoi riff sono talvolta usati come jingle alla radio o in televisione; le sue melodie spesso sono più che semplici “ispirazioni” per i successi dei gruppi oggi più in voga, come Cranberries, Coldplay e Oasis.

Inconfondibile anche la voce di Morrissey, nasale, malinconica, sempre pronta a fuggire verso l’alto con vertiginosi falsetti (non a caso in molti dei gruppi che negli anni ’90 si rifanno esplicitamente agli Smiths figura una donna come cantante).

Il punto più originale della bruciante carriera degli Smiths è però il perfetto amalgama tra la musica di Marr e le liriche di Morrissey, duo capace di ricordare le grandi coppie di compositori degli anni ’60.

Senza ascoltare i corrispondenti elaborati lavori di sostegno strumentale, è impossibile cogliere fino in fondo l’ironia della poetica di Moz (nomignolo affibbiato al cantante), fatta di domande fulminee del tipo «Come puoi restare con una ragazza grassa che dirà:/ “Oh! Vuoi sposarmi?/ E se lo vuoi potresti comprare l’anello?”» (William, It Was Really Nothing), di ritornelli “pregnanti” come «Alcune ragazze sono più grandi di altre/ Alcune ragazze sono più grandi di altre/ Alcune madri di ragazze sono più grandi di altre madri di ragazze» (Some Girls Are Bigger Than Others), di paragoni arditi quali «E il dolore era tale da fare/ Riflettere un timido e schietto buddista/ E fargli pianificare un omicidio di massa» (Stop Me If You Think You’ve Heard This One Before), soprattutto di affermazioni controcorrente come «Lui era un dolce e tenero teppista/ E disse che non l’avrebbe più fatto/ E naturalmente non lo farà (oh, non fino alla prossima volta)/ .../ Povera donna/ Strangolata nel suo letto mentre leggeva/ Ma va bene così/ Perché era vecchia e sarebbe morta/ Comunque» (Sweet and Tender Hooligan).

La levità e la delicatezza delle melodie smorzano e rendono tollerabile (senza diminuirne il valore) anche le affermazioni più drammatiche quali «È un buon momento per cambiare/ Vedi, la fortuna che ho avuto/ Potrebbe trasformare un uomo buono/ In uno cattivo/ Così per favore per favore per favore/ Fammi fammi fammi/ Fammi ottenere ciò che voglio/ Questa volta» (Please, Please, Please Let Me Get What I Want). Si ascolti, a questo proposito, quello strano inno d’amore (che sarebbe più sensato in bocca a un martire) che proclama «E se un autobus a due piani/ Si schiantasse contro di noi/ Morire al tuo fianco/ Sarebbe davvero un modo divino di morire» (There Is a Light That Never Goes Out).

Altre volte l’asprezza delle prese di posizione non viene nascosta ma anzi sottolineata da una musica più aggressiva e spigolosa. È il caso soprattutto delle critiche sferzanti a intere categorie umane, come i professori (in The Headmaster Ritual: «Belligeranti necrofili/ Guidano le scuole di Manchester/ Suini senza spina dorsale/ Menti cementate/ L’insegnante comanda le truppe/ Geloso dei giovani/ Stesso vecchio vestito dal 1962/ Fa il doppio passo militare/ Sulla mia nuca/ Voglio andare a casa/ Non voglio restare/ Voglio lasciare la scuola/ Come un brutto errore»), o i discografici (in Paint a Vulgar Picture: «Alla festa della casa discografica/ Nelle loro mani – Una stella morta/ Le servili scorie dicono tutte:/ “Lo conosciuto io per primo e l’ho conosciuto bene”/ Ristampa! Riorganizza! Riorganizza!/ Rivaluta le canzoni/ Confezione doppia con una fotografia/ Canzone in più (e un’etichetta adesiva)»). Ma la chitarra travolge tutto anche nel caso di una disperata affermazione personale come quella contenuta in What She Said: «Quello che lei ha detto:/ “Fumo perché spero in una/ Morte precoce/ E HO BISOGNO DI ATTACCARMI A QUALCOSA!”».

Come si può capire da queste citazioni, Morrissey è una delle massime incarnazioni di quanto di più lontano esista dai beniamini tutti “sorrisi & lustrini” della musica pop: mis-antropo (e mis-andro!), nichilista, politicamente (e socialmente) scorretto, per niente spensierato, esplicito e viscerale sia negli odii che negli amori, ultimamente incapace di avere rapporti esteriori coi propri simili. Perfetto “eroe” per una generazione di anti-eroi, di “mezze persone” (si veda il singolo Half a Person) rinchiuse intimisticamente nella propria cameretta ad ascoltare vecchi successi degli anni ’60 e a sognare grandi storie d’amore.

        Una delle possibili chiavi di lettura dell’opera poetica di Moz è proprio quella dettata dalle innumerevoli domande, richieste, invocazioni, presenti nelle canzoni degli Smiths, quasi a voler gettare un più o meno cosciente ponte comunicativo con l’esterno, con l’altro da sé.

I testi più significativi del complesso sono contrassegnati infatti da un numero non comune di punti interrogativi, che svariano tra questioni filosofiche («È il corpo a dominare l’anima/ O è l’anima a dominare il corpo?», in Still Ill), esistenziali («Così entriamo e leggiamo gravemente le lapidi/ Tutta quella gente tutte quelle vite/ Dove sono adesso?/ Con amori, e odii/ E passioni come le mie», in Cemetry Gates), personali («Non hai mai saputo/ Quanto tu mi piacessi/ Perché non te l’ho mai nemmeno detto/ Oh, e avrei voluto/ Sei ancora là?/ Oppure ti sei trasferita?», in Back to the Old House), introspettive («Nella mia vita, perché offro del tempo prezioso/ A gente a cui non importa se io sia vivo o morto?», in Heaven Knows I’m Miserable Now).

Del resto la più popolare canzone degli Smiths si intitola “Chiedi” (Ask) e recita, non senza la solita ironia: «La timidezza è bella, ma/ La timidezza ti può fermare/ Dal fare tutte le cose nella vita/ Che vorresti/ Così, se c’è qualcosa che vorresti provare/ Chiedimi – Non dirò di no – Come potrei?». Tutto questo, con buona dose di cinismo: «Perché se non è l’Amore/ Allora sarà la Bomba/ A unirci insieme»!

Forse la più urgente tra le domande rivolte al mondo da Morrissey si trova espressa (fin dal titolo) in un 45 giri del 1985, lunga e claustrofobica cavalcata chitarristica intitolata How Soon Is Now? (“Quanto è presto adesso?”). Mera presentazione del proprio io, è al tempo stesso una precisa attribuzione di responsabilità alle generazioni precedenti, di cui il cantante si proclama “erede”: «Io sono il figlio/ E l’erede/ Di una timidezza che è criminalmente volgare/ Sono il figlio e l’erede/ Di niente in particolare».

La scena descritta poco oltre sottolinea l’assoluta solitudine del nostro: «C’è un club, se ci vuoi andare/ Dove potresti incontrare qualcuno che ti ami davvero/ Così vai, e te ne stai da solo/ E te ne vai da solo/ E vai a casa, e piangi/ E vuoi morire».

La domanda finale, quasi retorica, ma pur sempre rivolta a un tu, è senza speranza, ma toglie il velo da qualsiasi “buonismo”, da qualsiasi facile speranza, da qualsiasi ipocrisia: «Quando dici che accadrà “ora”/ Bene, quando intendi esattamente?/ Vedi ho già atteso troppo/ E tutta la mia speranza se n’è andata».

Il mix tra sarcasmo e disperato solipsismo trova forse l’equilibrio più raffinato in quella provocatoria dichiarazione di intenti che è Panic. Singolo di successo del 1986, si distingue per un ritornello che insistentemente chiede: «Impicca il D.J.». Il motivo di questo “fenomeno” immaginario che porta il panico nelle strade del Regno Unito rimane scolpito con chiarezza nella seguente strofa: «Dai fuoco alla discoteca/ Impicca il benedetto D.J./ Perché la musica che fanno costantemente suonare/ NON MI DICE ASSOLUTAMENTE NULLA DELLA MIA VITA».

Se tutto questo ancora non bastasse a far capire quanto fuori dal coro ma seminale sia la voce degli Smiths, si può citare una delle canzoni dell’ultimo album, uscito nel settembre 1987 dopo lo scioglimento del gruppo, dovuto a un brusco e duraturo allontanamento tra i due leader. Si tratta di un ottimo epitaffio per le belle speranze degli edonistici anni ’80 e per gli stessi Smiths, in un certo senso: «Amore, pace e armonia?/ Amore, pace e armonia?/ Oh, molto bello.../ Ma magari in un altro mondo» (Death of a Disco Dancer).