Bruce Springsteen
Bruce Springsteen
Dal New Jersey con amore...
In corsa verso la terra promessa
Pianoforte e armonica arrivano quasi di soppiatto. Poi una voce americana tra lo svogliato e l’eroico: «La porta a rete sbatte/ Il vestito di Mary svolazza». È l’inizio di Thunder Road, il punto di partenza dell’epica avventura di Bruce Springsteen nel mondo. Non è possibile alcuna finzione: chi parla è la stessa persona che vive la storia che sta narrando. I particolari lo rivelano: l’amato Roy Orbison che canta alla radio, la propria chitarra come unica arma di combattimento, l’auto come mezzo per raggiungere la terra promessa. Senza virgolette: quella reale.
Mary sta timorosa senza parlare sul portico di casa sua, non è sicura di partire, pensa che ormai «non siamo più così giovani» per una follia di questo genere. Ma mentre la musica parte a pieni giri, Springsteen le dice che invano perderà tempo a pregare che arrivi «un salvatore che si alzi da queste strade» e che l’unica redenzione possibile sarà nel tentativo di salire in macchina e volare via, a tutta velocità e a finestrini aperti, per cercare di recuperare il tempo perduto e trovare la libertà, il compimento, la felicità.
«È una città piena di perdenti/ Ed io me ne sto andando per vincere»: e il sax di Clarence Clemons entra poderoso nella corsa musicale per convincere definitivamente, più che a parole, Mary e tutti noi che ascoltiamo. Alzi la mano chi, a questo punto, non è pronto a lasciare tutto e a partire! Lo sfumare del brano non significa la fine della corsa, ma che Bruce e Mary sono partiti.
“Nati per correre” si intitola il disco da cui Thunder Road è tratta. La canzone omonima (Born to Run) esplicita la sicurezza, a un tempo spavalda e schietta, del cantante: «Ti amerò con tutta la pazzia della mia anima/ Un giorno ragazza, non so quando, arriveremo in quel posto/ Dove davvero vogliamo andare/ E cammineremo nel sole/ Ma fino ad allora vagabondi come noi/ Piccola, siamo nati per correre».
Una idea molto vaga di quale sia la strada per raggiungere la meta, ma anche la piena coscienza della propria condizione esistenziale di “raminghi” e la convinzione di potercela fare comunque. Ancora una volta è la musica degli amici della E-Street Band (e soprattutto il sax) a dare il senso della possibilità della riuscita di questa missione.
Che non ci sia alcuno spazio per rimanere nella quotidianità è evidente da un’altra canzone dallo stesso storico disco del 1975 (Night): «Ti alzi ogni mattina al suono della sveglia/ Arrivi tardi al lavoro e il capo ti manda al diavolo/ Finché sei fuori allo scoccare di mezzanotte/ A perdere il tuo cuore per una bella ragazza/ E ti senti bene mentre chiudi la casa/ Spegni le luci ed esci fuori nella notte».
Sembra la solita filosofia del “tirare a campare” durante la settimana e “cogliere l’attimo” nel week-end, e forse lo è, in parte. Due sono le caratteristiche che rendono uniche le canzoni dello “sforzo di riuscita” springsteeniano (a parte la già citata intensità del coinvolgimento musicale).
Da una parte il Boss ha sempre davanti a sé una importante figura, perlopiù, femminile con cui paragonarsi. I personaggi autobiografici di Springsteen “corrono” sempre in due, o comunque l’uno verso l’altra. Come se una salvezza da soli non fosse abbastanza interessante. E quasi sempre non si tratta di donne eroiche, ma normali fino quasi alla banalità («Non sei una bellezza, ma ehi mi vai bene così», dice ancora in Thunder Road).
Dall’altra l’audace Bruce sembra più volte contraddire le proprie convinzioni di successo con affermazioni della propria incapacità di darsi la salvezza, come in Backstreets: «E dopo tutto questo tempo trovare che siamo come tutti gli altri/ Prigionieri in un parcheggio e costretti a confessare/ di nasconderci nelle strade secondarie». Questo contrasto diventa sempre più evidente nei dischi successivi. Si veda ad esempio The Promised Land, dal successivo Darkness on the Edge of Town (1978): «A volte mi sento così male che voglio esplodere/ Esplodere e devastare questa intera città/ Prendere un coltello e tagliarmi questo dolore dal cuore / Trovare qualcuno che muoia dalla voglia di qualcosa da iniziare/ …/ Ehi non sono un ragazzo, no sono un uomo/ E credo in una terra promessa». La fiducia nel compimento della propria umanità rimane, ma cresce la drammaticità della propria condizione e sembra necessario l’intervento di una “mano che aiuti”, che voglia “iniziare qualcosa”.
In particolare, le promesse fatte cominciano a vacillare prepotentemente in The River, LP del 1980. La canzone che dà il titolo all’album narra del matrimonio con, ancora una volta, una Mary, ma «Adesso tutte le cose che sembravano così importanti/ Be’ amico sono svanite proprio nell’aria/ Ora mi comporto come se non le ricordassi/ Mary si comporta come se non le importasse nulla», e i ricordi del tempo che fu rendono insopportabile la vita. Ugualmente, in Point Blank: «E mentre ti stringevo più forte giurai che non ti avrei lasciata andare via/ Be’ ti ho vista ieri notte per la strada/ La tua faccia era all’ombra ma sapevo che eri tu/ Eri in piedi sotto a un portone nella pioggia/ Non hai risposto quando ho chiamato il tuo nome/ Ti sei solo girata e poi hai guardato da un’altra parte/ Proprio come un altro estraneo che aspetta di essere spazzato via».
Ma nello stesso disco Springsteen non si scoraggia e chiede alla lei di turno di sposarlo, in I Wanna Marry You, al di là di tutte le possibili infedeltà e mancanze, e nonostante il cinismo che può essere espresso dai “cuori spezzati” e dalle “vite incompiute” che ci circondano. Resta quindi la certezza incrollabile che la vita è ultimamente positiva.
Il vero punto di svolta è però in un’altra canzone, Two Hearts, sincera confessione del proprio io: «Una volta perdevo il mio tempo a fare il duro/ Ma vivevo in un mondo di sogni infantili/ Un giorno questi sogni infantili devono finire/ Per diventare un uomo e crescere per sognare ancora». Dunque i sogni delle notti passate in macchina con Mary a cercare la felicità non bastano più. Gli sforzi da duro non hanno dato esito! A metà del “cammino di sua vita” Springsteen sembra intuire che non basta correre... Eppure capisce che non c’è bisogno di snaturare se stessi: è necessario “sognare ancora”, solo, con strumenti e modi diversi. Gli adulti hanno bisogno di sogni adulti.
Non a caso, l’acustico LP Nebraska (1982), contiene la descrizione di un sogno molto particolare: My Father’s House. Springsteen si rivede bambino mentre cerca di tornare alla casa del padre: «Uscii fuori dagli alberi, e lì nella notte/ La casa di mio padre era lì e brillava e splendeva/ I rami e i rovi strappavano i miei abiti e mi graffiavano le braccia/ Ma ho corso finché non sono caduto tremante nelle sue braccia». Svegliatosi e tornato nel posto reale in cui la casa si trova, una donna gli apre e gli dice: «Scusa, figliolo, ma nessuno con quel nome abita più qui». Eppure non viene meno il richiamo e persiste la certezza che la casa del padre «risplende al di là di questa oscura autostrada dove i nostri peccati giacciono inespiati». Una meta sicura, quantomeno, per le proprie corse in macchina.
Corse ancora una volta mai da solo, bisogna ricordare, in quanto: «È triste, amico, l’uomo che vive in se stesso/ E non può sopportare la compagnia» (Better Days, dall’album Lucky Town del 1992). E preferibile continua ad essere la compagnia di una donna, come I’m on Fire (dal famoso Born in the U.S.A., del 1984) un po’ bruscamente ci ricorda: «Solo tu puoi raffreddare il mio desiderio/ Vado in fiamme».
I sogni adulti di Springsteen sempre più spesso devono fare i conti con le proprie inadeguatezze: «Quando mi guardo dentro non vedo/ L’uomo che avevo sognato di essere/ Da qualche parte lungo il tragitto ho sbagliato percorso/ Sono preso a muovere un passo avanti e due indietro» (One Step Up). Il periodo è quello di Tunnel of Love (1987), disco peraltro registrato senza la storica E-Street Band e specchio di un momento di crisi matrimoniale. La contraddizione latente tra il Boss che intravede con sicurezza la terra promessa e lo Springsteen preso dai dubbi è narrata esplicitamente in Two Faces, dallo stesso disco: «A volte, signore, mi sento solare e selvaggio/ Signore amo vedere la mia piccola che sorride/ Poi arrivano nuvole nere ad avvolgere tutto/ Ho due facce/ Una che ride una che piange/ Una che dice ciao una che dice addio/ Una fa cose che non capisco/ Mi fa sentire come un uomo a metà».
Non a caso nelle ultime produzioni la maturità dell’artista esprime una fiducia meno riposta in sé, come quella espressa in Across the Border (da The Ghost of Tom Joad, del 1995): «E possano le benedizioni e la grazia dei santi/ Portarmi al sicuro nelle tue braccia/ Laggiù al di là del confine/ Perché che cosa siamo/ Senza la speranza nei nostri cuori/ Che un giorno berremo dalle acque benedette di Dio/ E mangeremo il frutto del vino?».
Non è uno Springsteen rassegnato o arreso a una speranza lontana, comunque. Lo testimonia la ripresa del rapporto con gli amici della E-Street Band (nuova moglie inclusa) al volgere del millennio, e soprattutto la musica espressa negli interminabili concerti con loro e nel recente The Rising (2002), che fa energicamente i conti con la rabbia e lo smarrimento successivi alla tragedia delle Twin Towers a New York, nel settembre 2001.
Non sono assenti quelle che appaiono quasi come invettive contro un destino che ha permesso l’esplodere del male: «Cielo vuoto, cielo vuoto/ Mi sono svegliato stamani in un cielo vuoto» (Empty Sky), ma la mancanza viene spesso valutata come non definitiva. Lo narra per esempio la musicalmente lieta Waiting for a Sunny Day: «Ho bisogno di te per scacciare via questa tristezza/ Senza te sono un batterista che non riesce a tenere il tempo/ Un camion di gelati in una strada deserta/ Spero che tu stia venendo per restare».
Assenza delle persone care, dopo l’11 settembre, che diventa assenza di un Dio percepibile; ma al tempo stesso, presenza di figure che danno senso alla vita quotidiana, come la Mary (ancora lei, dopo quasi 30 anni) di Mary’s Place, nella cui casa sembra possibile ritrovare la speranza e la fiducia di poter riabbracciare i cari non più intorno a noi. Questi i temi ricorrenti di The Rising, la cui title-track incita al risollevarsi con una potenza e una nettezza assenti dall’epoca dei dischi degli anni Settanta.
La parola finale è però in realtà My City of Ruins, scritta peraltro prima del disastro terroristico del 2001, in cui lamento e speranza, disperazione ed euforia lasciano spazio alla preghiera, collettiva e con cadenza quasi gospel, che conclude il disco: «Ora con queste mani/ Prego il Signore/ Con queste mani/ Dammi la forza Signore/ Con queste mani/ Dammi la fede Signore/ Con queste mani/ Prego il Signore».
Il “signore” con cui Springsteen sempre interloquisce nelle proprie canzoni (“mister” o “sir”), è adesso esplicitamente “Lord”: il Signore di tutto.
A ben guardare comunque, fin dall’inizio questo tipo di rapporto è presente in Springsteen, da quando, nel suo secondo LP, raccontando la “Storia del circo di Billy il Selvaggio” (Wild Billy’s Circus Story), che non è altro la storia del mondo umano, fatto di poveracci e di furbacchioni, il musicista esclama: «Gesù, manda qualche buona donna a salvare tutti i tuoi clown» (si noti, una volta ancora, che è la donna la figura tramite per la salvezza del reale).
Del resto, è ormai famosa la risposta data a un giornalista italiano riguardo la sua religiosità: «Una volta cattolico, per sempre cattolico, si potrebbe dire».