Tom Waits

Profilo critico del mitico cantautore (?)

 

Il pianoforte è sbronzo, non io

 

Parlare di Tom Waits senza ascoltarne la musica è un po’ come descrivere Cindy Crawford senza averla davanti: si rischia di perdere di vista il motivo per cui vale la pena averci a che fare.

La particolarità di questo songwriter californiano, ormai cinquantenne e con metà della vita passata a cantare le storie spesso dimenticate della sua America, è in primo luogo la voce, resa sempre più, col passare degli anni, quella di un vero e proprio orco, dagli stessi elementi che popolano le sue canzoni: alcool, fumo, notti insonni, frequentazioni poco raccomandabili, vita “contromano” da vagabondo. Una voce definita come «un ghiaioso stridio che mescola Louis Armstrong e Joe Cocker dopo una pesante ubriacatura». L’unica voce al mondo grazie a cui un colpo di tosse può divenire parte integrante della musica e del racconto.

La lettura delle storie di Waits richiede molta concentrazione (cosa inusuale per la musica leggera contemporanea), ma rischia di essere un esercizio letterario senza senso, se non le si sente raccontare dagli strumenti da lui portati in scena, di cui la voce è il primo ed essenziale. Gli altri sono perlopiù, almeno nei primi dischi, un piano, un contrabbasso, un sassofono e una batteria suonata con spazzole: il richiamo al jazz anni ’50 è più che evidente, ma non mancano le influenze blues, specialmente per quanto riguarda l’atmosfera, l’umore di molte delle avventure descritte.

Avventure senza movimento: contrariamente a quanto accade nel coetaneo e contraltare Springsteen, le automobili che popolano le scene di Waits sono spesso ferme, parcheggiate, tutt’al più usate per spostarsi da un motel all’altro, se non come mero sedile o punto d’appoggio, dai personaggi delle canzoni. Questo perché «non ho mai avuto una destinazione/ Non sono neanche partito» (Grapefruit Moon).

Si è detto delle atmosfere musicali inusuali. Qui ci concentriamo sulla produzione degli anni ’70, prima della svolta del 1983, comunque fuori dal business, verso la frammentazione e la dissonanza fino al rumore (Swordfishtrombones è il disco in questione). Per capire il personaggio, si tenga presente chi altro, in quello stesso periodo (e in California!) si possa permettere di saltare a piè pari la tradizione psichedelica dei “favolosi anni ‘60”, il rock progressivo dell’inizio del decennio successivo, la rivoluzione punk: nessuno.

Tornando alle storie narrate, dal punto di vista formale il riferimento che viene di solito fatto è quello al ritmo delle parole e al modo di narrare quasi improvviso ed improvvisato della poesia beat, che Waits apprezza più per gli aspetti formali che per i “riferimenti” ideali, del tipo «l’importante è andare, anche se non si sa dove». Certo è che trovano difficile confronto descrizioni come quelle presenti in The Piano Has Been Drinking («Il piano è sbronzo/ La mia cravatta dorme/ Il complesso se n’è tornato a New York/ Il juke box deve pisciare/ E i tappeti hanno bisogno di un taglio»), oppure i repentini cambiamenti di tono, spesso spiazzanti e dissacranti, come in Muriel, dove il lamento per una lei che se n’è andata e che non si riesce a dimenticare si chiude con un «Ehi, amico, hai da accendere?».

Per quanto riguarda i contenuti, in questo mondo notturno fatto di gente senza fissa dimora, disillusa (ma non per questo priva di anelito verso la felicità), e che come si è già notato annovera Waits stesso tra i suoi protagonisti, colpisce il numero impressionante di storie d’amore raccontate. Sottolineare l’opera del giovane Tom Waits, prima delle complessificazioni musicali, del matrimonio, della carriera da attore, non significa necessariamente voler puntare l’attenzione su un ribelle non allineato, un principe delle tenebre dei fumosi club americani, un giovane eroe cinico e senza speranze come i tanti già visti al cinema.

        Il comune denominatore delle vite “da cane randagio” delineate nei dischi del cantante californiano è molto spesso la ricerca, la lotta per mantenere e la dissoluzione di rapporti amorosi, i quali inevitabilmente esprimono il desiderio di felicità dell’uomo, ma senza alcuna artificiosa sublimazione poetica dei sentimenti, bensì tramite la semplice descrizione del modo in cui Waits e i suoi compagni di viaggio entrano in rapporto con la realtà.

Già nel primo disco (Closing Time, del 1973), I Hope That I Don’t Fall in Love with You narra la dinamica che si verifica misteriosamente nell’incontro tra uomo e donna: un locale affollato e pieno di fumo, un boccale di birra scura, un casuale incrocio di sguardi con una donna accompagnata e poi lasciata al tavolo da «un vecchio pagliaccio». «Spero di non innamorarmi di te/ perché innamorarmi mi rende triste/ La musica suona e tu metti in mostra/ Il tuo cuore perché io lo veda»: il “cuore”, più che il volto, o il corpo. Lei è in compagnia, ma in realtà è sola. Il “vecchio Tom” allora prende coraggio, si beve un’altra birra, si volta per cercarla ancora, ma se n’è andata; «e mi sa che mi sono innamorato di te».

Le chiamano comunemente “vite disperate”, ma non c’è disperazione in questo uomo che decide di bere ancora una birra dopo aver appena perso di vista il volto che lo ha risvegliato dal torpore, così come in colui che (ben tre anni prima di Travolta), va alla ricerca del “cuore del sabato sera”: «questo sarà il sabato in cui raggiungerai la vetta» (Looking for the Heart of the Saturday Night).

Non c’è disperazione, né incoscienza o superficialità, ma sguardo pieno di umanità, in chi dice che «Quando vedo la tua faccia sorridente/ So che niente prenderà mai il tuo posto» (Little Trip to Heaven), o in chi si spinge ad affermare che «Nessuno, nessuno ti amerà mai/ Nel modo in cui io ti potrei amare/ Perché nessuno è così forte» (Nobody). Si noti che chi parla in questo modo è virtualmente la stessa persona che si accorge che l’amore umano è fragile, e che forse uno sguardo distante un metro dall’oggetto vede meglio di quello portato da un centimetro: «Innamorarsi è una cosa facile/ Ma è resistere che è così difficile per me/ Voglio stringerti ma ho tanta paura/ Di romperti la schiena» (Fumblin’ with the Blues).

I personaggi di Waits hanno spesso una miracolosa, quasi istintiva coscienza di essere fatti per la felicità ed altrettanto stranamente non si lasciano piegare dalle loro debolezze: «Ho pagato quindici dollari per una prostituta/ Con troppo trucco e una scarpa rotta/ Ma i suoi occhi erano una contraffazione/ Ha provato ad ingannarmi/ Ma tu sai che io ti amo ancora» (Saving All My Love for You). Sembra quasi di avere a che fare con bugiardi, o con schizofrenici: «Bionde, brune e rosse hanno usato il loro martello/ Per scolpire un freddo cesello sul mio cuore/ Erano solo apostrofi/ Piccola, questo mi viene dal cuore» (This One’s from the Heart).

Non è così: sono persone che a volte indulgono in ricordi, nostalgie, auto-assoluzioni e piccole bugie, ma che al di là di ogni moralismo sanno ed esprimono il fatto che il cuore (parola che torna spesso nelle canzoni, come si è visto) punta sempre verso il massimo di compimento raggiungibile. Tutte queste storie d’amore vissute, subito perse, rimpiante, ritrovate, fuggite, sono il modo in cui comunica la propria profonda umanità una fauna di persone che pure sa bene che «È dura fare il romantico/ Quando spazzi accanto/ Al distributore di sigarette» (I Can’t Wait to Get Off Work).

        E infatti quasi sempre le promesse fatte vengono infrante, dato che nessuno basta al cuore che cerca la felicità, e allora si scappa, cercando di dimenticare le parole dette ed ascoltate, di far cicatrizzare le ferite, perché l’ennesima mancata realizzazione dei propri desideri è sempre più dolorosa.

Blue Valentine, nel 1978, tratteggia dieci stra-ordinari personaggi della infinita galleria waitsiana: dalla donna “con le scarpe rosse davanti all’emporio” che aspetta un uomo col quale ha un appuntamento ma che non arriverà perché viene ucciso mentre cerca di rubare un diamante per lei, alla prostituta che scrive una lettera ad una vecchia fiamma inventandosi una vita felice (salvo rivelare alla fine che ha bisogno di un prestito per pagare l’avvocato e uscire di prigione), fino a Romeo, il capobanda che è stato colpito dalla polizia e sanguina ma non lo dà a vedere ai suoi pachucos, fa lo spaccone insieme a loro, poi va a morire al cinema, guardando un film di eroici gangsters come lui.

L’ultima canzone, Blue Valentines, descrive la più originale e strana tra tutte le strane storie d’amore raccontate da Waits: un uomo parla di una donna che continua a spedirgli “tristi cartoline di San Valentino”, per ricordargli «quello che ero una volta», prima di fuggire, cambiare città, volto, nome, affogare i ricordi nell’alcool. «Lei mi manda tristi cartoline di San Valentino/ Anche se cerco di rimanere alla larga/ Insistono che il nostro amore/ Deve ricevere un panegirico/ …/ E ci vuole un bel po’ di whiskey/ Per far andar via questi incubi/ E rinuncio al mio cuore sanguinante ogni notte/ E muoio un po’ di più ogni San Valentino/ Ricordo che avevo promesso di/ Scriverti/ Queste tristi cartoline di San Valentino».

Le promesse che si fanno perché si è fatti per il “per sempre” che si intravede in ogni storia che inizia; le promesse che non si sanno mantenere perché da soli non è possibile sostenerle… A meno che non si incontri un amore che si faccia carico della nostra debolezza, e senza dimenticarla, sappia andare oltre e puntare diretto al nostro cuore «cieco e spezzato», volendoci bene per quello che siamo. In una parola: è il perdono. Waits intravede questa possibilità, ma ancora una volta scappa, forse perché in fondo pensa che sia inverosimile poter fare questa esperienza. Ma per fuggire è costretto a dimenticare la propria identità e il proprio desiderio.

Ad un passo dall’evento del compimento della propria vita, il vecchio orco Tom Waits si volta e fugge. Le tristi cartoline però, continueranno a giungergli ogni anno della sua vita.